L’intelligenza artificiale che riduce l’intelligenza umana

Hai mai notato che dopo aver usato un assistente AI per scrivere, quando torni alla produzione testuale totalmente autonoma, tutto sembra più difficile del solito? Come se il cervello avesse perso l’abitudine di pensare autonomamente. Come se qualcosa si fosse spento.

Bene: non è una sensazione. È neurobiologia.

Già, perché dietro la promessa di renderci maggiormenti efficienti, performanti e capaci, l’intelligenza artificiale produce un rovescio della medaglia che non può essere archiviato come fosse un dettaglio: più usiamo l’AI per pensare al posto nostro, meno diventiamo inclini a pensare da soli. Ingiustificati allarmismi? Assolutamente no: già dopo solo qualche anno dall’inizio dell’adozione di massa della tecnologia del secolo, quello che era un sospetto ora sta assumendo sempre più i contorni di una certezza: gli strumenti che dovrebbero potenziare la nostra mente, in realtà, possono indebolirla.

Il fenomeno della dipendenza cognitiva

Diversi studi neuro-scientifici stanno confermando quello che molti di noi hanno già intuito: l’uso intensivo di strumenti AI modifica il modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni. E, va da sé, quando deleghiamo costantemente il processo di scrittura, analisi o sintesi a un algoritmo, il cervello si abitua a ricevere, invece che a produrre. Una ricerca del MIT ha monitorato l’attività cerebrale di studenti che usavano diversi strumenti digitali per scrivere. I risultati sono emblematici: chi si affidava agli assistenti AI mostrava progressivamente una riduzione dell’attività neurale e delle capacità di ritenzione. Ma il dato più preoccupante è (soprattutto) un altro: questa “pigrizia cognitiva” persiste anche quando smettiamo di usare l’AI. Perché il cervello fatica a riaccendere i circuiti del pensiero critico, come se avesse perso l’abitudine. È, insomma, come la differenza tra andare in palestra e condurre una vita eccessivamente sedentaria. Nel primo caso i muscoli si rafforzano, nel secondo rischiano di atrofizzarsi.

Perché Google è diverso dall’AI generativa

Non tutti gli strumenti digitali hanno lo stesso effetto sul cervello, sia chiaro. C’è una differenza fondamentale tra cercare informazioni e ricevere risposte preconfezionate. Quando usi Google, per dire, il tuo cervello rimane attivo. Formuli domande, valuti risultati, confronti fonti, sintetizzi informazioni. È un processo che richiede pensiero critico e che mantiene allenate le capacità cognitive. Gli assistenti AI generativi, però, funzionano diversamente. Eliminano tutti i passaggi intermedi tra domanda e risposta. Non cerchi, a volte non valuti, non sintetizzi. Chiedi, ricevi. Punto. E il tuo cervello, così, si abitua a questa passività. Ma c’è un aspetto ancora più insidioso: l’AI non ti dà solo risposte, ma formula opinioni, spesso confezionate come verità. E siccome sono ben scritte e convincenti, la persona può smettere di valutarle criticamente.

L’illusione della competenza

Il problema più sottile dell’intelligenza artificiale, quindi, è il creare una costante illusione di competenza. Quando usi l’AI per scrivere un testo brillante, il tuo cervello registra il successo come proprio. Così ti senti più intelligente, anche se l’intelligenza dietro a quella creatività non è la tua. Un’illusione pericolosa, questa, perché impedisce, a monte, di riconoscere il declino delle proprie capacità reali. Pensi di stare evolvendo, ma lo fai proprio mentre stai peggiorando. Come chi usa sempre il navigatore satellitare: ti dà la certezza di poter arrivare sempre alla giusta destinazione, solo che nel frattempo il tuo senso dell’orientamento paga lo scotto. Con l’AI succede la stessa cosa, in pratica. Quando non hai accesso agli strumenti, ti accorgi che le tue capacità di analisi, sintesi e creatività si sono ridotte. Ma spesso è troppo tardi per un recupero rapido.

I bias nascosti negli algoritmi

C’è poi una questione più profonda: l’AI non produce contenuti neutri. No, perché ogni algoritmo riflette i bias dei dati su cui è stato addestrato e le scelte dei suoi programmatori. Allora, se chiedi a un assistente AI di analizzare un tema controverso, non ottieni (sempre) un’analisi obiettiva. Arriva l’output che l’algoritmo è stato programmato a privilegiare. E siccome questa analisi risulta ben confezionata e convincente, puoi farti cadere nella tendenza ad accettarla senza filtri critici. Il risultato? Una forma sottile di omologazione del pensiero. Col rischio che, usando gli stessi strumenti AI, si possa finire per avere idee simili, perché tutti attingono dallo stesso pozzo algoritmico. È una versione sofisticata della camera dell’eco: i tuoi pensieri vengono modellati non dalle tue riflessioni, ma dalle supposizioni probabilistiche di un algoritmo.

Strategie di sopravvivenza cognitiva

Questo non vuol dire dover rinunciare all’intelligenza artificiale: a questo punto della storia, sarebbe, soprattutto in certi casi e contesti, sostanzialmente impensabile. Significa però imparare a usarla strategicamente, senza diventarne dipendenti.

Prima strategia: usa l’AI come punto di partenza, mai di arrivo. Lascia che gli algoritmi ti diano spunti iniziali, poi sviluppali con il tuo cervello. Non accettare mai la prima versione come definitiva.

Seconda strategia: alterna periodi “con AI” e “senza AI”. Come in palestra, il cervello ha bisogno di allenamento regolare senza assistenza per mantenere la forza cognitiva.

Terza strategia: mantieni attivo il processo critico. Quando usi l’AI, chiedi sempre versioni alternative della stessa risposta. Confronta, valuta, sintetizza. Non accettare passivamente.

Quarta strategia: usa l’AI per compiti meccanici. Lascia che si occupi di formattazione, correzione ortografica, traduzione. Ma mantieni il controllo su creatività, strategia e pensiero critico.

Quinta strategia: verifica sempre fonti e logica. L’AI può essere convincente anche quando sbaglia. Il tuo cervello deve rimanere vigile e scettico.

Il futuro del pensiero umano

La sfida dei prossimi anni sarà trovare l’equilibrio giusto tra efficienza tecnologica e sviluppo cognitivo. Per capire come sfruttare i vantaggi dell’AI senza perdere quelle capacità che ci rendono umani ed esseri intelligenti. Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ci mancherebbe, ma di usarla consapevolmente e di riconoscere che alcuni processi mentali - la riflessione profonda, il pensiero critico, la creatività originale - non possono essere delegati senza conseguenze. L’intelligenza artificiale può renderci più produttivi, ma solo l’intelligenza naturale può renderci più “forti”. Forti e dunque saggi, e cioè quella sola competenza che nessun algoritmo potrà mai replicare. Il trucco è ricordare chi siamo noi, in questa interazione sempre più diffusa: siamo piloti, non passeggeri.

*È doveroso precisare che, alla data di giugno 2025, lo studio citato nell'articolo è stato pubblicato su ArXiv come preprint e non è ancora stato sottoposto a peer review. Pertanto, tutte le conclusioni devono essere considerate preliminari e trattate con la dovuta cautela scientifica. Lo studio presenta inoltre alcune limitazioni metodologiche: il campione contenuto di partecipanti provenienti da un'area geografica specifica, l'utilizzo del solo ChatGPT come modello AI testato, e l'analisi focalizzata esclusivamente sulla scrittura di saggi in ambito educativo. I ricercatori stessi sottolineano la necessità di studi longitudinali più ampi e diversificati per confermare questi risultati iniziali.

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